La Villa Gheza


    Lungo la strada che attraversa il centro storico di Breno (Brescia) appare, all'improvviso, un fuggevole occhieggiare di agavi e di palme dietro un muro dalle forme insolite per l'architettura della Valle Camonica. La curiosità si fa poi ancora più accentuata se si scorgono gli alzati della Villa, decorati da archi arabi e da un belvedere "all'orientale". Villa Gheza si deve alla caparbietà e alla fantasia di un personaggio straordinario e bizzarro della storia brenese, l'Avvocato Maffeo Gheza. Nato a Pian di Borno il 30 aprile 1875, e laureatosi in giurisprudenza all’Università di Torino ai primi del Novecento, si stabilì a Breno dove iniziò l’attività di civilista e di imprenditore in campo elettro-siderurgico, immobiliare e bancario nel tentativo di riscattare la Valle Camonica dalla secolare emarginazione.
    Il carattere forte e difficile del personaggio emerge anche da alcune abitudini di vita che sono divenute leggendarie, come il rifiuto ad assistere a spettacoli cinematografici, il viaggiare al di là dei limiti geografici della Lombardia, l’aver consacrato per tutta la vita il martedì e il venerdì alla caccia al camoscio o alla coltivazione della terra, pratiche per le quali progettò una serie di abitazioni rustiche, oggi divenute rifugi alpini, ed una casa colonica nella natia Pian di Borno.
    Come sia nata l’idea di costruirsi un’abitazione al centro di Breno in stile orientale non ci è noto, ma è significativo che Gheza si sia sobbarcato completamente progetto ed esecuzione dell’edificio, utilizzando per la realizzazione maestranze locali. Il risultato di un impegno durato dal 1929 al 1935 è appunto un complesso architettonico di tre piani, progettati per gli appartamenti dei figli, circondato da ampi giardini a gradoni e coronato da una terrazza con belvedere sul castello brenese e sulla valle: un edificio che per le sue peculiarità e l’importanza assunta nel contesto architettonico di Breno andrebbe vincolato quale bene architettonico e salvaguardato con adeguati interventi manutentivi. 
    L’accesso dalla strada è caratterizzato da un arco arabo su colonnine a fascio e dagli intonaci incisi con caratteri cufici e decorazioni geometriche, mentre i viali che salgono verso la villa sono realizzati con ciottoli di fiume bianchi e neri a disegni geometrici. Non mancano scale a ventaglio, fioriere polimorfe, panchine, improvvisi angoli con grotte e padiglioni, il tutto immerso in una lussureggiante vegetazione mediterranea caratterizzata da agavi e palme. Intorno al giardino corre un muro di cinta costellato da piccole torri e ricoperto da fasce ad intonaco con iscrizioni, in gran parte perdute, inneggianti a motti e virtù laiche.
    Come si è detto l’edificio venne terminato nel 1935, tuttavia l’appartamento dell’ultimo piano, per uno dei figli, rimase incompiuto, e oggi una buona parte della villa è disabitata, ma nonostante ciò essa ha mantenuto ancora un buono stato di conservazione che ci permette di leggere la trama delle ricche decorazioni in stucco e cemento che ricoprono le superfici esterne. Nel corso della ricerca sono poi stati ritrovati numerosi disegni, realizzati da Maffeo Gheza fra il 1931 e il 1934, relativi alle sole parti decorative e ad alcune soluzioni per le aperture e per i soffitti che ci permettono dì capire le fonti e i modelli di riferimento del progettista. Gheza non viaggiò mai in Oriente, né, pare, ebbe occasione di assistere a proiezioni cinematografiche relative all’Oriente immaginario di Hollywood, e tuttavia dimostra anche nei dettagli una discreta conoscenza dell’architettura e della decorazione del mondo medio-orientale. La spiegazione va cercata probabilmente nelle attitudini culturali del progettista, che frequentò alcune esposizioni internazionali, dove comparivano padiglioni di gusto esotico, e che soprattutto collezionò fotografie ed album fotografici relativi all’architettura araba e del vicino Oriente; infatti la sua conoscenza non risulta essersi formata da studi diretti sui manufatti, il che spiegherebbe anche la pianta dalla villa, esemplata sui modelli architettonici dell’architettura tardo-ottocentesca diffusa in Italia, strutturata su una forma rettangolare, dalla quale fuoriescono l’entrata monumentale e la serra del jardin d’hiver. Non manca infatti nemmeno la torretta belvedere, elemento che connota quasi tutti gli edifici tardoeclettici dell’area lombardo-piemontese, qui trasformata naturalmente in un gazebo traforato, ma realizzato in ferro e cemento modellato, come l’architettura modernista aveva insegnato, emergente da una terrazza che, fino ad un quindicina di anni fa, era un giardino pensile con aiuole, sempre in cemento a stampo, con fragole e piante da fiori e costellato di lampioni. Il legame con l’architettura eclettica si fa ancora più evidente poi nel piano terra dove appunto il salone si apre, con porte scorrevoli, verso il jardin d’hiver circondato da ampie vetrate in ferro dalle forme addirittura gotiche e mettendo quindi in colloquio due matrici stilistiche diverse e allo stesso tempo fortemente affini.
    Gli interni maggiormente conservati risultano essere quelli al piano terra, poco interessati da successive trasformazioni e che conservano tra l’altro parte dell’arredamento originario. Anche qui la ricostruzione dell’Oriente mitico e i motivi dell’eclettismo si fondono senza contrasti: l’ingresso a pianta poligonale è caratterizzato al centro da una fontana con commessi marmorei, come nei palazzi di Granada o del Marocco, ma con al centro una lampada opalinata sulla quale scorreva l’acqua (come nei padiglioni eclettici delle Esposizioni). La camera da letto padronale poi gioca su tutti gli elementi decorativi che Gheza poteva trarre dalle immagini fotografiche in suo possesso: le colonnine sottili che separano l’alcova dal bow-window che dà sul giardino, la vasca marmorea incassata nel pavimento, la decorazione geometrica dell’intonaco con dorature e cromie ed infine i due letti in noce con intarsi e rami sbalzati, a metà strada fra la culla e il sofà di un harem, realizzati, come il resto dell’arredamento, da Aldredo Cappellini di Niardo, certo esemplati sugli allora notissimi mobili Bugatti, con i quali mostrano notevoli tangenze.
    I pavimenti in marmorino veneziano vennero realizzati, sempre su disegno di Gheza, da una ditta friulana, mentre i lavori in cemento e sugli intonaci da una ditta locale, i Putelli, coadiuvati dai Cappellini. Lo stesso giardino venne realizzato non acquistando le essenze dal mercato internazionale, ma dallo stesso Gheza, che si assicurò tutte le palme e le agavi dei giardini delle ville di vacanza sul lago d’Iseo, dove fra l’altro gli esemplari erano già acclimatati: quasi un rifiuto a cercare al di là degli stretti confini della valle un qualsivoglia legame con il mondo esterno.
    I disegni, in tutto venti a matita su carta e quasi tutti firmati e datati, sono per la gran parte modelli esecutivi, che venivano consegnati nelle mani dei capimastri delle varie ditte occupate alla realizzazione della villa, e da essi si coglie chiaramente la volontà di Gheza di giocare da una parte con un desiderio mimetico quasi esasperato e dall’altra con continue varianti e innesti legati non alla diretta conoscenza dell’Oriente, ma ad un’idea leggendaria e favolistica del mondo medio-orientale. In alcuni dettagli, quali i soffitti a stucco, le decorazioni policrome (spesso a fondo rosso e verde) delle pareti, sempre in stucco, l’impiego dei caratteri cufici come decorazione, gli archi a sesto acuto con dentelli, fanno diretto riferimento all’architettura della Alhambra di Granada che è proprio il modello al quale Gheza, più di ogni altro, sembra guardare ma, come si è detto, sempre con un’ambigua posizione fra l’imitazione e la volontà di creare qualche cosa di nuovo.

   E la diversità si esplicita in due modi: l’uno, evidente nell’immediato, che è appunto l’impatto di una forma architettonica dalle precise connotazioni in un ambiente totalmente opposto come può essere quello di una valle alpina e in chiara polemica con le abitudini, non solo costruttive ma anche mentali, dell’ambiente circostante. L’altro nel nascondere, ma allo stesso tempo evidenziando, all’interno delle fasce decorative in caratteri cufici, alcuni motti derivati da precetti coranici ed elaborati dallo stesso Gheza, inneggianti a valori laici, quali il lavoro, e ad un sostanziale rifiuto del perbenismo sociale, che caratterizzò tutta la sua vicenda biografica (Maffeo Gheza muore il 24 luglio 1948). Infatti lungo il muraglione di confine ad oriente, verso il paese, corrono alcune fasce con iscrizioni in gran parte perdute. A sinistra del cancello: "Nella vita non c’è stasi o si procede o si perde terreno"; a fianco la versione coranica del medesimo motto; a destra: "Apprezzerete il Frutto del Lavoro eseguendolo". All’esterno a destra "Al hazzuli Iman la iahnsahu", "L’avvenire sarà di chi non lo avrà temuto - Spetta all’uomo conquistarsi la vita"; a sinistra "L’animo ingigantisce nelle difficoltà! Chi molto... ha tempo... per... creando"; "Fisica Morale Intellettuale Per Edificarla". Si tratta evidentemente della codificazione dei principi etici di un self made man,principi e attitudini mentali che caratterizzarono, nel nuovo secolo, un gran numero di imprenditori lanciati alla conquista del mercato con tutte le contraddizioni del caso. Certo la polemica viene giocata da Gheza anche sul piano dei comportamenti sociali, della lotta alla ristrettezza mentale, al perbenismo, al pettegolezzo e come Giuseppe Visconti, nel contemporaneo cantiere di Grazzano Visconti in stile neogotico, che faceva affiggere agli angoli delle strade del finto borgo una serie di targhe con l’iscrizione, leggibile solo da destra a sinistra, "Impippatene e guarda in alto", così Maffeo Gheza, sotto il grande balcone d’ingresso al piano nobile della villa, trasformava i caratteri cufici della decorazione in una regola di vita "La gente dice. Che cosa dice. Lasciamola dire".